12 gennaio 2010

Rivers State, il forziere della Nigeria


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Rivers treasure base of the nation" ("Il Rivers State è il forziere della nazione"): è la scritta riportata sulle autovetture immatricolate in questo che è uno dei nove stati che compongono il Delta, una delle regioni più ricche della Nigeria. Più che a una nazione, per la Nigeria, bisogna pensare a un gigante dove vive quasi un sesto della popolazione di tutta l’Africa. Un paese grande circa tre volte l’Italia con 150 milioni d’abitanti, che per la maggior parte vivono sotto la soglia di povertà. Indipendente dal 1960 vanta una storia degna del peggio di questo continente: colpi di stato a ripetizione, brogli elettorali e corruzione endemica.
"Da quando la società civile è stata debilitata da decenni di governo militare, i nigeriani usano liberamente l’espressione 'colonialismo interno' come la più immediata per descrivere la perdurante soppressione della volontà popolare, una coordinata rimozione democratica che funziona grazie a una ristretta cricca egemone, determinata a mantenere il controllo della nazione" (Wole Soyinka, 12 luglio 2009). La "cricca" a cui fa riferimento il Premio Nobel per la letteratura è l'élite militar-civile che controlla oggi il potere politico ed economico di un paese che è il primo esportatore di greggio dell’Africa e l’ottavo al mondo. La quasi totalità del petrolio nigeriano arriva dalla regione del delta del fiume Niger, una zona dove l’inquinamento ha reso sterile una terra fertilissima e prive di vita acque pescosissime. Terre abitate da circa 30 milioni di persone, provenienti da 40 differenti etnie. Qui il business delle concessioni petrolifere alle grandi multinazionali, che vede protagonista anche l’italiana Eni, produce l’80% del Pil della Nigeria. Ma nel Delta, dei proventi di mezzo secolo di esportazione, non sono arrivati nemmeno gli spiccioli.

Girando per le trafficatissime strade di Port Harcourt, capoluogo del Rivers State impressionano le code mostruose nei pressi dei distributori di benzina, che spesso sono vuoti. È il paradosso nigeriano: producono petrolio, ma non sono in grado di raffinarne per il mercato interno. Quindi esportano greggio e reimportano benzina: inevitabile che i prezzi salgano alle stelle. Chibuike Rotimi Amaechi è governatore del Rivers State dal 2007. Dinamico, sicuro di sé, con un sorriso un po' alla Eddie Murphy, è dedito a quell’operazione che nel marketing si chiama rebranding: cambiare la nomea che il Delta ha acquisito in questi anni. Port Harcourt non deve più essere solo sinonimo di violenza (la città è tappezzata da una sorta di pubblicità progresso con cui 'si sconsigliano' rapimenti, violenze e affiliazioni a dubbie sette para-religiose). Un'operazione di pulizia che da una parte procede con le ruspe che, senza tanti complimenti, stanno radendo al suolo interi slum e dall’altra, cercando di mantenere una promessa, secondo cui lo sviluppo futuro passa attraverso l’istruzione e finanzia la costruzione di 50 nuovi istituti scolastici nella regione.

È nell’ambito di questo processo di rebranding che il governatore ha sponsorizzato lo Ion International Film Festival, celebratosi a Port Harcourt nel dicembre scorso. Un festival itinerante partito da Los Angeles, transitato da Dubai nel 2008, e arrivato un anno dopo nella capitale del Rivers State. Dal 2007 è gestito dal Farmani Group di Hossein Farmani, businessman iraniano trapiantato negli States e grande intrecciatore di charity, cultura e soldi. La mission ufficiale del festival era quella di promuovere il cinema indipendente e di costruire la pace (o almeno provare a farlo) attraverso l'arte. Obiettivo perseguito con successo grazie alla professionalità della squadra che ci ha lavorato. A partire dalla direzione artistica, affidata a Catherine Ruelle, francese, profonda conoscitrice del cinema africano. Pellicole provenienti dall’Europa, dall’America, dall’India, da tutta l’Africa, con ovviamente grande spazio alla cinematografia made in Nollywood, la risposta 'nera' a Hollywood e a Bollywood. Dopo il petrolio e il business religioso, con un fatturato di 250 milioni di dollari e 300 mila addetti, è la terza industria della Nigeria. Ogni settimana quasi trenta nuovi film fanno la loro comparsa nella giungla urbana nigeriana.

La base logistica di Nollywood è Lagos, la capitale economica del paese. In questa sorta di ragnatela umana di oltre 15 milioni di abitanti c’è spazio per una sorta di Beverly Hills tropicale: la penisola di Lekki, scelta dalle star per le loro residenze. Il quartiere di Surulere, invece, ospita le società di produzione e le nuove dinastie di Nollywood. Una geografia che ha nelle bancarelle e nelle stradine inestricabili di Idumota la macchina da soldi che diffonde ai quattro angoli del paese centinaia di film ogni anno. Qui la pellicola non esiste, si lavora solo in digitale e tutto viene diffuso tramite dvd: saltando completamente il circuito delle sale cinematografiche i produttori nigeriani sono stati capaci di raggiungere un pubblico sempre più ampio e variegato. Comprati ad Idumota, i film vengono poi rivenduti nei mercati di tutte le più grandi città del continente africano, superando in parte i conflitti linguistici ereditati dal passato coloniale e contribuendo a creare così un universo di riferimenti culturali comuni capaci di tagliare trasversalmente le frontiere tracciate dalla politica. L’incontro, a Port Harcourt, con registi e attori di Hollywood, come Giancarlo Esposito e Daryl Hannah, e Bollywood, come Adnan Siddiqui e Masumeh Makhija, ha consentito un interscambio e una possibilità di sviluppo a una cinematografia 'giovane' come quella nigeriana.

Il clima informale che favoriva approcci e incontri con registi, produttori e star cinematografiche, unitamente ad appositi workshop intelligentemente inseriti nel programma del festival, hanno consentito a mondi molto lontani - per mezzi economici e tradizioni culturali - di entrare in contatto e potersi, vicendevolmente, evolvere. Pescando tra le numerose sezioni in cartellone - corto e lungometraggi, documentari, video, lavori di animazione, più una sezione dedicata ai lavori di giovani studenti nigeriani - mi permetto una segnalazione per un paio di lavori, extra-nollywoodiani, che meriterebbero di arrivare quanto prima nelle nostre sale. La prima è per "From a whisper", del keniano Wanuri Kahiu, una pellicola - premiata per la categoria lungometraggi - che racconta una storia legata all'attentato di Nairobi dell’agosto 1998 all’ambasciata americana. La seconda è per uno strabiliante musical, firmato dalla regista senegalese Dyana Gaye, ambientato durante un viaggio in taxi tra Dakar e Saint Louis. L’elenco completo dei lavori premiati a Port Harcourt è su www.ionfilmfestival.com.

Cinque domande a...Enrico Vanzina


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Enrico Vanzina, classe 1949, forma col fratello Carlo un’inossidabile coppia di registi e sceneggiatori. I primi passi dietro la macchina da presa li ha mossi come aiutante del padre Stefano, meglio noto come Steno. Nel 1976 ha iniziato la carriera di sceneggiatore che lo ha portato a firmare più di ottanta film con molti dei più famosi registi italiani, fra i quali Dino e Marco Risi, Alberto Lattuada, Mario Monicelli e Nanni Loy. Insieme a Carlo ha realizzato alcuni dei maggiori successi degli anni Ottanta e Novanta, lavorando con un grandissimo numero di attori italiani, tutti molto quotati. Nel corso del 2009 ha firmato la sceneggiatura del film "Un'estate ai Caraibi", sempre insieme al fratello, che invece ne ha curato la regia.



Come si prepara per un viaggio?
In realtà non mi preparo mai, amo i viaggi casuali. A meno che non si tratti di lavoro, i miei viaggi veri sono last minute della mia coscienza. Non viaggio mai d’estate perché in questa stagione di solito lavoro, ma negli altri periodi sì e a volte sono capace di dire a mia moglie il venerdì: "Fai la valigia, si parte per il weekend". Il viaggio mi allunga la vita e per quando sarò più anziano voglio più bandierine piantate sulla mia mappa.

Cosa non dimentica mai di mettere in valigia?
Per anni mi sono portato di tutto, all’insegna del "non si sa mai". Poi ho imparato il piacere di viaggiare leggerissimo.

Il viaggio che ricorda di più e che porta nel cuore?
Il primo viaggio fatto dopo l’esame di maturità. Avevo diciotto anni ed era un coast-to-coast negli Stati Uniti. Me lo regalò mio padre, per me allora una traversata mitica.

La musica che ascolterebbe per rivivere le emozioni di quel viaggio?
Sicuramente Bob Dylan. Qualsiasi cosa.

Il cibo più particolare che ha assaggiato?
È stato un trauma, ma in realtà e per fortuna non l’ho assaggiato. Mi trovavo a Hong Kong, dove mio padre stava girando con Bud Spencer un film su Piedone. Noi tre fummo invitati a pranzo da alcuni produttori locali. E la prima portata che ci servirono fu una testa di scimmia col cranio scoperchiato e il cervello da mangiare così, ancora al suo posto. Proprio come nel film di Indiana Jones. Scappammo!